diffusa nel newsgroup da LIVIA BOTTA, (www.liviabotta.it, www.adozionescuola.it), pubblichiamo volentieri questa lettera molto significativa sull'importanza, per la società, dell'adozione come modello virtuoso di genitorialità e accoglienza.
Gent. ma dott. ssa Livia
Botta,
dopo aver partecipato all'
incontro di presentazione del Vademecum per insegnanti "Alunni adottati in
classe" ed essermi iscritta al vostro gruppo on-line per leggere le vostre
comunicazioni, ho seguito con interesse l'evoluzione del vostro lavoro insieme
al dibattito interno.
Purtroppo non ho mai potuto
partecipare attivamente a causa di molteplici impegni. Tuttavia ho sempre
ritenuto di fondamentale importanza una riflessione ed un approccio
conseguentemente adeguato intorno alle problematiche da voi trattate, anche in
riferimento al fatto che "storicamente" la scuola dove insegno: Maria Mazzini di
Castelletto ha sempre annoverato tra i suoi alunni molti bambini provenienti da
un percorso di adozione.
Oggi, però, le scrivo non in
merito ad una esperienza scolastica vissuta o praticata, ma a partire dal mio
vissuto che in questi ultimi tempi mi ha fatto ancora maggiormente considerare
quale sofferenza interiore i nostri piccoli o grandi alunni abbiano dovuto
affrontare nel loro recente passato e quanto noi possiamo e dobbiamo aiutarli
nel percorso di costruzione della propria identità senza commettere troppi
sbagli!
...io sono nata in Italia da
padre italiano e da madre francese, ho avuto la fortuna di aver vissuto una
infanzia bellissima insieme ai miei genitori nella città di San Remo e di aver
avuto l' opportunità di conoscere e parlare da subito due lingue, due culture
poichè spesso trascorrevo le mie vacanze in Francia.
Nell'età dell'adolescenza ho
accarezzato l'idea di stabilirmi in F, ma in seguito ad amicizie e occasioni ho
scelto di rimanere in Italia e di studiare Teologia e Filosofia (e non Lingue e
Lett. Straniere come avrebbero preferito i miei genitori).
Dopo il mio matrimonio mi sono
trasferita a Genova dove non ho faticato ad inserirmi anche perchè qs città mi
ricordava molto Marsiglia, la mia seconda città.
Nati i miei figli non ho
"sentito" la necessità di parlare loro in francese poichè pur essendo
madrelingua la ritenevo una forzatura che ci avrebbe condotti ad un cerimoniale
sterile senza significato (ricordavo di aver letto di certe comunità germanofone
in America Latina che hanno protratto questo uso per alcune generazioni senza
molti esiti).
Quest'anno sono stata toccata da
molti lutti familiari tra i quali la perdita di mia madre prima e di suo
fratello, mio zio, poi. Era rimasto ormai per me l' unico parente in
Francia.
Da quel momento ho cominciato a
sentirmi molto male a livello psicologico poichè ho visto ormai spezzati tutti
i miei legami là.
In particolare, l'idea di non
poter più sentire quella lingua parlata dalle voci dei miei cari (é evidente che
mi rimane sempre la possibilità di ascoltare una trasmissione o una
canzone...eppure...) mi ha procurato un sentimento di assenza, di vuoto, forse
di abbandono, profondo come una voragine e perciò mi sento molto
fragile.
E' una cesura che si é creata,
che in qualche modo andrà ricucita, ma che al momento mi provoca una grande
sofferenza che non so bene descrivere neanche io.
L'unico pensiero che mi ha
confortata è stato il ricordo di quanto avevo scritto nel mio compito di
italiano alla maturità (1983) in cui avevo sviluppato il concetto di
cittadinanza fino a sentirsi "cittadini del mondo".
Nelle classi ormai da molti anni
mi sono spesso rapportata con alunni adottati.
Le famiglie adottive, come ebbi
l'occasione di dire ad un incontro in cui fui invitata anni fa, mi hanno sempre
colpito per il fatto di costituire per le altre famiglie, cosìddette naturali,
un paradigma per l'accettazione delle personalità dei nostri figli che a torto
possiamo considerare come propri in senso deleterio.
Nelle relazioni tra famiglie
adottive e non ho colto la possibilità di un circolo virtuoso di comunicazione
tra affetti forti e un richiamo alla salvaguardia di una libertà profonda che
dovrebbe essere il punto di partenza educativo per "ogni"
bambino.
Tornando alla mia esperienza ecco
questi non brevi pensieri per confermarvi, qualora ce ne fosse stato il bisogno,
che l'attenzione che state ponendo su questo "focus" è davvero importante e che
noi insegnanti, genitori, educatori e amici non dobbiamo fare altro che
ascoltare, rispettare profondamente l'altro ed accompagnarci con discrezione nei
nostri percorsi di uomini e donne nomadi che siamo.
Sarà lei, dott.ssa Botta, a
decidere se qs mio racconto può essere di contributo alle riflessioni del vostro
bellissimo gruppo, in tal caso la autorizzo a far circolare qs mia
lettera.
Ringraziandola per il suo lavoro
e l'attenzione prestatami, le mando i miei più cordiali saluti insieme
all'invito di andare avanti nel vs progetto,
maria elisa riboldi