martedì 9 settembre 2014

L'abbandono secondo HARUKI MURAKAMI

Murakami Haruki (in giappone sempre prima il cognome e poi il nome) scrittore prolifico che scrive romanzi in cui la realtà si mischia spesso in scene oniriche, immaginifiche, quasi fantasy, ha scritto tra gli altri "Kafka sulla spiaggia" in cui il protagonista principale è Tamura Kafka, adolescente con molta iniziativa e profondi pensieri e riflessioni. È un libro di oltre 500 pagine in cui spicca tra gli altri questo dialogo introspettivo di un paio di pagine, che tratta dell'abbandono e degno di essere riportato quasi integralmente.

Il protagonista di questo dialogo con se stesso si fa chiamare Kafka (Tamura è il cognome vero), e un quattordicenne scappato dalla casa del padre e che è stato abbandonato a quattro anni dalla madre che si è portata via anche la sorella. Con il padre appena morto, pur convivendo, non aveva nessun tipo di familiarità. Il ragazzo chiamato Corvo è figura immaginaria che lo aiuta ad affrontare la vita e che appare nei momenti significativi. In questo caso le riflessioni sorgono mentre si sta perdendo volutamente in un bosco piuttosto impenetrabile.

Dubbio.
Perché non mi ha amato?
Non avevo le qualità necessarie per meritare l'amore di mia madre? È un interrogativo che mi brucia e mi tormenta ormai da tanti anni. Se mia madre non mi ha amato, non sarà stato per qualche mia grave mancanza di fondo? Perché ho una natura fondamentalmente corrotta? Perché ho qualcosa di innato che spinge gli altri ad allontanare lo sguardo da me?
Mia madre, prima di lasciarmi, non mi ha nemmeno stretto fra le sue braccia, né mi ha degnato di una sola parola. Si è voltata e se n'è andata insieme a mia sorella senza dirmi niente. È scomparsa dalla mia vista in silenzio, come fumo. E il suo viso si è allontanato da me per sempre.

(...)

La mente di nuovo mi trascina nella mia casa, a Nogata. Mi ritorna in mente con chiarezza il giorno in cui mia madre se ne andò, portando con sé mia sorella. Io sono seduto sulla veranda e guardo il giardino. È verso il tramonto, all'inizio Io sono seduto sulla veranda e guardo il giardino. È verso il tramonto, all'inizio dell'estate, e le ombre degli alberi sono lunghe. A casa ci sono solo io. Non so come, ma già mi rendo conto di essere stato abbandonato, e lasciato lì da solo. Capisco anche che questo fatto avrà probabilmente un'influenza profonda e decisiva sulla mia vita. Nessuno me l'ha spiegato. L'ho capito e basta. La casa è vuota e deserta come un posto di guardia abbandonato su qualche remota frontiera. Il sole sta calando a ovest, e io osservo le ombre che pian piano avanzano, prendendo possesso del mondo. Nella dimensione del tempo, niente torna mai indietro. I tentacoli dell'ombra erodono il nuovo territorio un gradino alla volta, e anche il viso di mia madre, che fino a poco fa era lì, adesso è risucchiato in quel dominio freddo e buio. Il suo viso, che con tanta durezza si è rivolto altrove, rifiutando di guardarmi, è automaticamente sottratto alla mia memoria e si cancella progressivamente.
Pochi giorni prima ha conosciuto la signora Saeki, direttrice della biblioteca in cui si è rifugiato, e ha immaginato che fosse la madre fuggita quando era piccolo. Questa ipotesi si rivelerà poi fondata. Per ora, però per lui è ancora solo un'ipotesi.


Mentre cammino per la foresta, penso alla signora Saeki. Rivedo il suo sorriso pacato e lieve, ricordo il calore delle sue mani. Provo a immaginarla come mia madre che mi lascia solo, quando ho appena compiuto quattro anni. Istintivamente scuoto la testa. Mi sembra talmente improbabile, incredibile. Perché la signora Saeki avrebbe dovuto fare una cosa del genere? Perché avrebbe dovuto ferire, danneggiare così gravemente me e la mia vita? Dovevano esserci una ragione importante e un senso profondo che rimanevano avvolti nel segreto.
Provo a sentire quello che allora lei deve aver sentito, a immedesimarmi nella sua situazione di allora. Naturalmente non è facile. Io sono quello che è stato abbandonato, e lei quella che ha abbandonato. Ma dopo un po' di tempo riesco ad allontanarmi da me stesso. Il mio spirito sguscia dalle rigide vesti dell'io e si trasforma in un corvo nero che si posa su un alto pino nel giardino, e da lì osserva me, bimbo di quattro anni, seduto sulla veranda. Mi trasformo in un corvo nero che formula alcune ipotesi.

— Non è che tua madre non ti amasse, — dice il ragazzo chiamato Corvo alle mie spalle. — Anzi, ti amava profondamente. Prima di tutto, bisogna che tu ti convinca di ciò. Il punto di partenza è questo.
— Però mi ha abbandonato. Mi ha lasciato da solo nel posto sbagliato ed è scomparsa. E questo - oggi lo capisco fino in fondo - mi ha provocato ferite e danni gravissimi. Se davvero mi avesse amato, perché avrebbe dovuto fare una cosa simile?
— Sì, le conseguenze sono state quelle che dici, — ammette il ragazzo chiamato Corvo. — Hai ricevuto ferite profonde, subito danni che ti porterai dietro per sempre. Provo una gran pena per te. Ma detto questo, bisogna che tu rifletta bene su una cosa: puoi ancora guarire. Sei giovane, e sei forte. Hai una notevole capacità di adattamento. Puoi curarti le ferite, alzare la testa e andare avanti. Per lei invece questo non è più possibile. È perduta: a lei non rimangono altre opportunità. Non è che qualcuno sia migliore di un altro. Semplicemente, chi possiede un vantaggio reale sei tu. È su questo che devi riflettere.

Io non rispondo.

— Il fatto è che tutto ormai è accaduto, — continua il ragazzo chiamato Corvo. — Non si può più rimediare. Allora lei non avrebbe dovuto abbandonarti, e tu non avresti dovuto essere abbandonato da lei. Ma le cose accadute sono come un piatto che si è rotto in mille pezzi. Per quanto uno possa tentare di incollarne i frammenti, non potrà tornare com'era in origine, non ti pare?

Annuisco. Per quanto uno possa tentare di incollarne i frammenti, non potrà tornare com'era in origine. È davvero così. Il ragazzo chiamato Corvo riprende.

— Anche in tua madre c'erano tanta paura e rabbia. Come in te adesso. Per questo allora lei dovette abbandonarti.
— Anche se mi amava?
— Sì, — risponde il ragazzo chiamato Corvo. — Sì, dovette farlo anche se ti amava. Quello che devi fare tu adesso è comprendere il suo stato d'animo di allora e accettarlo. Devi comprendere la paura e la rabbia che la opprimevano in quel periodo, e accettarle come se fossero tue. Non ereditarle e ripeterle. In altre parole, devi perdonarla. Naturalmente non è facile. Ma è quello che devi fare. Sarà la tua unica salvezza. È la sola opportunità che ti si offre.

Ci penso. Ma più tento di riflettere, più cresce la mia confusione. La mente è sconvolta, e ho tanti dolori nel corpo da sentirmi lacerare.

— Dimmi, la signora Saeki è mia madre? — chiedo.
— Ti ha già risposto lei, no? — dice il ragazzo chiamato Corvo. — Come ipotesi, è valida. È chiaro? L'ipotesi è ancora valida. Questo è tutto ciò che ti posso dire.
— Un'ipotesi che non ha ancora trovato una controprova abbastanza efficace.
— Esattamente, — dice il ragazzo chiamato Corvo.
— E io devo seguire seriamente questa ipotesi senza tirarmi indietro.
— Esattamente, — ripete il ragazzo chiamato Corvo con tono secco. — Un'ipotesi che non ha una controprova capace di confutarla è un'ipotesi che vale la pena seguire fino in fondo. Del resto, in questo momento è l'unica possibilità che hai. Non hai altra scelta. Devi seguire questa ipotesi fino in fondo, anche a costo di sacrificare te stesso. 

 — Sacrificare me stesso? — Qualcosa, in queste parole, mi risuona vagamente inquietante, ma non capisco perché.

Tuttavia lui non risponde. Un po' in ansia, mi volto. Il ragazzo chiamato Corvo è ancora lì, alle mie spalle, e cammina alla mia stessa andatura.
Che tipo di paura e di rabbia aveva dentro di sé la signora Saeki? E da dove nascevano? — gli chiedo mentre cammino guardando avanti.  
Tu che tipo di paura e di rabbia credi che avesse? — chiede il ragazzo chiamato Corvo, rimandando a me la domanda. — Pensaci. È una questione su cui devi riflettere bene, usando la testa. La testa serve proprio per questo.
 
Ci penso. Devo capire e accettare prima che sia troppo tardi. Ma non riesco ancora a leggere quei caratteri minuti che le onde lasciano sulla riva della mia coscienza. L'intervallo fra un'onda e l'altra è troppo breve.

— Io amo la signora Saeki, — dico. Queste parole mi vengono alle labbra con estrema naturalezza.
— Lo so, — risponde il ragazzo chiamato Corvo con tono brusco.
— È una sensazione che non avevo mai provato prima, — dico. — E in questo momento è per me la cosa più importante.
— Certo, è naturale, — dice il ragazzo chiamato Corvo. — È ovvio che per te sia così importante. Non è per questo che sei arrivato fin qui?
 
Però io ancora non capisco. Sono completamente smarrito. Tu dici che mia madre mi amava. Anzi, secondo te mi amava profondamente. Vorrei crederti. Ma ammesso che tu abbia ragione, io continuo a non capire. Non capisco come sia possibile che amare profondamente qualcuno voglia dire ferire quella persona in modo tanto crudele. Perché se così fosse, che significato avrebbe amare? Com'è possibile che succedano cose di questo genere?

Aspetto la sua risposta. Resto a lungo in silenzio. Ma la risposta non arriva. Mi giro. Il ragazzo chiamato Corvo non è più dietro di me. Sento, sopra la mia testa, un secco battere d'ali. Sei completamente smarrito.


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