mercoledì 16 marzo 2016

Garanzia di successo?

Quale garanzia avrà quel bambino di sentirsi figlio...

Quando si pensa alle procedure che precedono l'adozione, si pensa soprattutto al fastidio di dover essere giudicati dai servizi sociali, di dover giustificare la disposizione delle stanze della casa, di dover raccontare le aspirazioni, i desideri, le paure, le disillusioni, il lutto da elaborare; ma cos'è questo lutto? Se siamo solo un po' delusi? Non è sufficiente? Avremmo dovuto prima precipitare nell'abisso della disperazione, per poi risalire verso una nuova speranza? Provare una nostra personale passione e resurrezione?
Aspettare settimane che i servizi abbiano tempo e personale per incontrarci più volte, per alcuni è scomodo, per altri è noioso o semplicemente tempo buttato. Perdere giornate lavorative per raccontarsi e parlare di temi scomodi con il timore di dire qualcosa che possa indisporre gli astanti, con la paura di sembrare troppo o troppo poco coinvolti emotivamente o troppo razionali, o aver timore di non sembrare equilibrati all'interno della coppia come se il desiderio di adottare fosse progetto di uno solo assecondato passivamente dall'altro è sicuramente fonte di stress. 
Sembra incredibile, ma ci sono casi di coppie che sono scoppiate durante il periodo di valutazione pre-adozione... ma forse queste non erano idonee a rimanere unite.
Per la maggior parte di noi, persone comuni di qualsiasi censo o educazione sedersi davanti a una coppia di assistente sociale e psicologa o davanti a un giudice, non è cosa di tutti i giorni. Cosa ne sappiamo di bambini? E soprattutto cosa ne sappiamo di bambini adottivi? Mostrare sicurezza è positivo? Oppure ostentarla produrrà un effetto negativo? Il figlio immaginato avrà tratti troppo delineati o troppo vaghi? Ci si sentirà già "incinti"?  Troppo o troppo poco? Per non parlare dei tratti somatici, del colore della pelle, della provenienza, del rischio giuridico, del rischio sanitario, e così via: troppo disponibili, quindi poco credibili o troppo poco disponibili e quindi troppo rigidi ed esclusivi? 
E poi, le domande imbarazzanti che ci sta ponendo l'assistente sociale (di solito fa la parte del poliziotto cattivo, quello buono è la psicologa, ma non sempre) sono domande disinteressate o sono provocazioni? Dobbiamo rispondere col sorriso anche su temi difficili oppure sembriamo troppo frivoli e dobbiamo rimanere seri rischiando di sembrare infastiditi dall'invadenza nella nostra vita privata? 
E, infine, la relazione finale che ci stanno leggendo corrisponde veramente a noi oppure abbiamo l'impressione che sia stato omesso qualcosa o che ci siano delle approssimazioni? Nel caso sarebbe meglio correggerla, perdendo altro tempo e forse peggiorando la nostra presentazione, oppure lasciamo qualche piccola inesattezza? 
Dovremo incontrare un giudice che dopo aver letto la relazione si illuderà o farà finta di conoscerci, ci porrà domande le cui risposte sono già nella relazione o da quella sono deducibili, ci chiederà di fratrie, età, problemi di salute, ecc. e passerà altro tempo.
Trascorreremo altri mesi, anni in attesa del decreto, di documenti amministrativi, disponibilità degli enti o dei tribunali a considerarci, in attesa di scalare gli elenchi nei tribunali o negli organi costituiti del paese straniero scelto.

Sin dall'inizio, in questo tempo di attesa pensiamo a un bambino che ci aspetta in un istituto vicino o lontano che sia non ci è dato di saperlo, non ne conosciamo l'età, le fattezze, il colore di pelle, occhi e capelli, non ne conosciamo il carattere, né lo stato di salute. Sappiamo solo che sarà nostro figlio, prima o poi. Quando si deposita la disponibilità all'adozione, o ancor prima, quando si matura l'idea comune (di entrambi) di cercare un figlio nell'adozione, la domanda naturale è se ci si riuscirà, quali garanzie avremo di successo? Ma la maggior parte di noi pensa che il successo sia tornare a casa con un figlio e un documento anagrafico che lo dichiara tale. 

Sbagliato! 

La domanda dovrebbe essere, da subito, quale garanzia di successo avrà quel bambino di sentirsi figlio, di sentirsi parte di una strana cosa chiamata "famiglia adottiva" composta da persone eterogenee (geneticamente distanti) tenuta insieme da una colla di affetti forti ed elastici?

Noi adulti pensiamo che sia difficile diventare genitori adottivi, e un po' effettivamente lo è, non è certo semplice come "unirsi e moltiplicarsi", ma dovremmo cercare di comprendere come sia più difficile diventare figlio adottivo, quasi sempre già un po' grande, quasi sempre con brutte esperienze precedenti (anche il solo abbandono è sufficiente, è un rifiuto), spesso spostato dal luogo d'origine, strappato rapidamente dalle abitudini, dal mondo in cui si trovava e affidato a sconosciuti anche molto diversi dagli adulti conosciuti fin lì. 

A Torino si è fatta una ricerca statistica sulle cause dell'insuccesso delle adozioni. Il tribunale di Torino nel periodo preso in esame era noto per essere restio a distribuire facili decreti di idoneità. I decreti erano ottenuti comunque da numerose coppie che presentavano ricorso. Nella ricerca si è evidenziato che tra le coppie che avevano ottenuto l'idoneità dopo ricorso, l'incidenza di criticità, fallimenti e restituzioni è risultata significativamente maggiore rispetto alle altre coppie. 
Anche per questo, eliminare il decreto di idoneità è impensabile. L'idea di rivedere il processo di valutazione della coppia dovrà tener presente lo scopo finale del processo adottivo che non è fornire figli a chi li desidera, ma far diventare figlio un bambino abbandonato. 



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